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identità

Ho appena finito l’ultimo libro della quadrilogia de L’amica geniale di Elena Ferrante e mi sento come se la mia mente avesse fatto indigestione di emozioni e spunti di riflessione.

Non riuscirò a parlarvi di tutto ma almeno un concetto mi piacerebbe condividerlo, perché è un comune denominatore che si ritrova in molte storie.

Premessa: leggete L’amica geniale, il primo volume vi piacerà e gli altri non riuscirete a non leggerli. È la storia di due amiche di cui si racconta l’infanzia: Elena Greco, l’io narrante, e la sua amica-nemica Lila Cerullo, sono simili e diverse. Si sovrappongono di continuo proprio quando sembrano prendere le distanze. Un romanzo sull’amicizia, sull’amore, sulle relazioni, sulla famiglia, sulla fiducia, politicamente e storicamente orientato. Questo è il motivo per cui il primo libro piace di sicuro, perché tocca almeno un pezzo di noi che ci sta a cuore.

Ma passiamo alla mia riflessione, che ha a che fare con qualcosa che tocca la mia storia e la mia professione.

L’identità

I primi 20 anni della nostra vita li dedichiamo a imparare, e così facendo costruiamo un nostro bagaglio di esperienze e valori che ci permettono di fare parte di un gruppo, e che in qualche modo ci fanno anche sentire speciali e unici.

Impariamo prima di tutto dai nostri genitori, dai loro pregi e difetti, dal loro personale modo di vedere le cose, di provare sentimenti e di agire nel mondo.

Poi ci sembra che sia arrivato il nostro turno. Il momento tanto atteso in cui diventiamo autonomi e ci tocca costruirci un futuro lavorativo, un nuovo nucleo familiare: quindi mettiamo automaticamente in pratica tutto quello che abbiamo imparato. Ma noi non siamo solo la somma delle nostre esperienze, c’è qualcosa di più ma nessuno ci insegna a cercare quel qualcosa.

Se osserviamo con curiosità le due amiche descritte dalla Ferrante notiamo che i due personaggi si sovrappongono di continuo. Questo sovrapporsi le confonde e le rende insicure, senza limiti entro i quali definirsi. Hanno sempre bisogno dell’altra per ritrovarsi, per confermarsi. Questo è evidente soprattuto per Elena Greco (la voce narrante), ma in modo meno esplicito funziona anche per l’amica Lila.

I miei pazienti mi raccontano spesso, accompagnando la narrativa con una buona dose di sofferenza, della sensazione di non essere mai abbastanza, di sentirsi insignificante senza l’altro. Quel vuoto che arriva quando ci sembra di aver fatto una cosa importante ma se l’altro non ce la conferma allora non vale nulla. E così vedete come diventa facile diventare dipendente da una personalità “forte”, o da una sostanza che può placare l’angoscia.

Il contesto educativo in cui cresciamo fa il suo dovere: ci insegna ad essere dei bravi figli, dei bravi studenti e poi dei discreti professionisti. Ma chi ci insegna ad essere noi, autenticamente noi?

Può sembrare una pura digressione teorica ma non lo è, e ha degli importanti riscontri nella psicopatologia. Quante persone, incastrate in un’esperienza dolorosa, tendono a reiterarla perché non si accorgono della loro sofferenza? In quante occasioni abbiamo legittimato i nostri errori o fallimenti perché tanto lo fanno tutti? Quante volte abbiamo copiato modi, valori, aspettative da qualcuno che credevamo migliore sentendoci poi vuoti, con un incessante bisogno di essere riempiti?

Di fatto, siamo sempre più simili e sempre meno unici, tanto che la ricerca di unicità diventa, per alcuni, un’ossessione. La mia proposta è di fermarci un attimo e cercare di essere prima di tutto autentici. Non rassegnarsi alla risposta più immediata, ma cercare la nostra risposta. Con i bambini è un passaggio fondamentale: alimentare la curiosità, la fiducia e il senso critico costruttivo senza però mai perdersi nell’essere speciali a tutti i costi. Stimolarli a provare cose nuove e dare loro un po’ del nostro tempo per lasciargli lo spazio di far emergere risposte nuove.

E noi che ormai siamo grandi, cosa possiamo fare?

Per noi il processo è più complesso: bisogna imparare a non accontentarsi delle nostre risposte in favore di quelle che ci soddisfano di più, che sentiamo più vicine alla nostra pancia. Significa chiederci le cose più volte e ascoltare la risposta, consapevoli che forse ce n’è una più vera se stiamo ad ascoltare con pazienza. Due indicazioni dell’insight dialogue (una pratica meditativa relazionale) ci possono aiutare in questa direzione: ” guarda in profondità” e “dì la verità”. Potremmo prendere tutto questo come un gioco finalizzato a conoscerci meglio stuzzicando così anche la nostra curiosità.

photo credit: Giant Shadows via photopin (license)